Perché TEPPA?
Teppa. Difficilmente, in quest’epoca della rivoluzione della comunicazione e dalla costante ridefinizione di contenuti e significati, possiamo trovare un simile termine del quale interiorizzare e sentire profondamente nostri tutti i contenuti che esso presuppone.
“Teppa” è il titolo, e se vogliamo anche il protagonista intrinseco, del best-seller di Valerio Marchi, un punto di riferimento imprescindibile per la nostra formazione culturale, in cui l’autore tenta di istituire una genealogia storica tra tutti i casi di opposizione materiale, di conflitto, di ondate di giovani e meno giovani tagliati fuori dai cicli di produzione e dimenticati dalla “splendida cavalcata” della civiltà consumista verso il progresso dal Rinascimento ai giorni nostri; di coloro che non accettavano di vivere passivamente la loro subalternità sociale e di diventare inopinatamente carne da cannone o esercito di manodopera di riserva. Gruppi che dalle periferie, fisiche o concettuali, dell’impero venivano per assaltarne il cuore pulsante, disposti quindi a mettere in dubbio lo status-quo per ribaltarlo e affrontare a viso aperto la narrazione ufficiale con ogni mezzo necessario.
Non solamente attraverso le battaglie d’opinioni, le romantiche, ma poco efficaci lotte contro i mulini a vento di Cervantiana memoria o i vademecum per aspiranti rivoluzionari da imparare a memoria, ma anche sporcandosi le mani e mettendosi direttamente in gioco, facendo uso di tutta quella furia iconoclastica se non espressamente nichilista, cantata dai Bloody Riot del compianto Roberto Perciballi (un altro dei numi tutelari di questo nostro progetto) in “Teppa Life”, pietra miliare del punk italiano e colonna sonora di un’intera generazione di riottosi; anche a costo di subire una pesante stigmatizzazione da parte dell’opinione pubblica e di quei ben pensanti che dai loro trespoli all’interno dei quartieri per bene, hanno sempre appiattito ogni rivendicazione sociale sul piano della delinquenza facendoli diventare così dei capri espiatori su cui riversare tutte le colpe e tutte le ansie della società. Quei così detti “Folk devils” che fungevano e a ben vedere fungono tutt’ora da arma di distrazione di massa permettendo così alla classe dirigente di tenere ben salde le redini del controllo sociale, distraendo l’opinione pubblica dai suoi misfatti perpetrandoli in quello che si vorrebbe un tacito assenso generale ottenuto sulla massa ignava di chi non ritiene necessario alzare la testa per opporsi e lottare in nome della propria dignità quasi senza colpo ferire.
Ma “Teppa” vuole ricordare anche Andrea Bellini, purtroppo venuto a mancare poco tempo fa, e della sua Banda del Casoretto alla cui memoria dedichiamo idealmente questo festival. Con questo quartiere storicamente operaio di Milano, Bellini per quasi tutta la sua parabola politica mantiene un rapporto vero, vissuto quotidianamente da abitante delle periferie che conosce i bisogni e le pulsioni della sua gente, e che gli consente di creare il servizio d’ordine più famoso ed efficiente dei suoi tempi per una Milano che sta vivendo prima delle altre città il cambiamento della propria classe operaia, ( ma potremmo generalmente allargare il discorso a tutte le componenti “antagoniste”) sia dal punto di vista esistenziale che da quello del paradigma politico-sociale, dovendosi allo stesso tempo confrontare non solo con la sbirraglia e coi fascisti, ma con tutti quei “professionisti della politica di movimento”, che per quanto possano cambiare i tempi e i luoghi, li ritroviamo in tutte le declinazioni sempre uguali a se stessi, forti della loro posizione “garantita”, con la spocchia di chi si reputa l’unico custode della verità e dei corretti metodi di fare politica, a pontificare su ciò che è giusto e ciò che è coerentemente rivoluzionario e ciò non lo è, puntando il dito sugli altri senza mai mettersi in discussione, a tutti loro la banda Bellini ha continuato a lasciare le briciole delle gratificazioni dialettiche e dei momenti assembleari per andare a prendersi i gradi sul campo. Il merito principale di Andrea Bellini è stato proprio quello di aver dimostrato che i rapporti di forza si possono cambiare e che proprio in nome della loro genuinità, un gruppo di teppisti provenienti dalla periferia, se adeguatamente organizzati e inquadrati, sono in grado di ridurre al lumicino le velleità salottiere dei soloni della rivoluzione e di mettere paura ai potenti e ai loro cani da guardia, siano essi fascisti o poliziotti, potendo realmente aspirare a concorrere al cambiamento futuro.
È proprio attingendo a piene mani a questo pantheon, che abbiamo deciso di canalizzare il nostro rapporto a quei territori in cui ogni giorno è necessario resistere per mantenere la nostra identità e pensare di passare al contrattacco: in un momento così delicato di attacco frontale da parte delle classi dirigenti nei nostri confronti, appare quanto mai necessario resistere concretamente, tanto alla gentrificazione dei quartieri popolari, quanto agli sfratti che si moltiplicano giorno dopo giorno, ma anche allo smembramento del nostro background culturale e allo sdoganamento della guerra tra poveri che attualmente viene condotta sotto l’egida del razzismo e della violenza squadrista foraggiata dall’assordante silenzio di una c.d. società civile ormai inebetita, ma anche dai soldi dei e dalla compiacenza dei loro finanziatori sempre meno occulti. È per questo preferiamo usare il termine resistenze al plurale.
Ma per non fare la fine dei Templari o di altre comunità autoreferenziali è necessario, oggi più che mai, vivere i territori e non solo attraversarli, sporcarsi le mani e far partire progetti che riescano a ridefinire le nostre coordinate culturali, anche mettendoci più tempo del previsto, nelle quali non può certo mancare quella solidarietà di classe che da sempre è un patrimonio degli oppressi di tutti i tempi e di tutti i luoghi e che proprio per questo, è sotto attacco dal nuovo paradigma neoliberista che ha nel culto dell’individualismo uno dei propri pilastri.
Tuttavia sarebbe fuorviante, e forse più tipico di quei “professionisti” stigmatizzati dal Bellini, supporre di avere la soluzione in tasca e di essere già a buon punto nell’unificazione degli interessi di tutti gli sfruttati, anzi tutt’altro!
Vivere i quartieri e le borgate vuol dire confrontarsi con gente, situazioni e socialità differenti da quelle abbastanza autoreferenziali che noi compagni siamo abituati a vivere nei nostri spazi ed essere ugualmente un punto di riferimento o comunque socialmente riconosciuto dalla comunità; vuol dire avere un confronto in cui a volte si parte con la pretesa di volere insegnare qualcosa e si finisce a essere noi stessi quelli ad aver appreso le lezioni più importanti senza approcciarsi con tabelle di marcia come se si fosse in una fabbrica dove bisogna ottenere obiettivi aziendali, vuol dire mettere in pratica tutte quelle formule scritte nei nostri manuali e declinarli alle imprevedibili (e per qualcuno ancora indecifrabili) dinamiche della strada, vuol dire sporcarsi le mani e sapersi rialzare anche quando si hanno delle rovinose cadute. Cadute che capitano a chiunque abbia provato a mettersi realmente in gioco e a rischiare, ma che non devono necessariamente voler dire la fine dei percorsi, perché essenzialmente vuol dire sperimentare e non fermarsi mai alla propria piccola oasi, ma cercare di mettere in confronto le esperienze metropolitane di varia natura e cercare un comune denominatore che sia da stimolo per migliorarci tutti e riuscire a ottenere quello scatto in avanti per cui dalla semplice, ma non scontata né tanto meno sottovalutata socialità, si riesca a passare a un livello successivo di mobilitazione, attraverso l’organizzazione e la partecipazione diretta alle proprie vite.
Dalla somma di questi postulati, confrontando le differenti esperienze e le differenti resistenze in cui siamo impegnati nella quotidianità e attingendo a piene mani alle nostre radici culturali, a quell’underground che attraverso le sue molteplici forme ed espressione darà vita alle nostre rivendicazioni e sosterrà appunto la nostra resistenza che abbiamo deciso di dare vita a questo festival che, grazie alle sensibilità diverse che si sono coagulate intorno, potrà restituire un affresco della vita della teppa metropolitana del terzo millennio, del rapporto con i quartieri e con chi questi spazi li vive, delle importanti mediazioni della musica e dello sport vissuti dal basso e non come vacche da mungere in nome del business, dell’arte e di tutte le forme di produzione di saperi non convenzionali e di un immaginario coinvolgente in gradi di rivitalizzare un conflitto in crisi (e la cui gestione è demandata a chi non sa davvero cosa farci), che scardineranno quell’opprimente cappa normalizzante che tutti i giorni respiriamo a pieni polmoni per ridare voce ai giovani e a tutte quelle persone di cui nessuno si è preoccupato di garantirgli un futuro, ma che non hanno nessuna intenzione di sperare nella divina provvidenza, ma vogliono scrivere in prima persona il proprio destino.
Teppa – Festival delle resistenze metropolitane
20-21 Aprile 2017 Università La Sapienza, Roma
Saranno organizzati eventi di lancio anche nei mesi precedenti al Festival.